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Giorno 13. Riconoscersi

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  Quando è il momento di ritirarsi, si dice che un atleta lo senta benissimo dentro di sé. Me lo ha ripetuto qualche giorno fa anche Carolina Kostner, citando la cugina Isolde. Quando è il momento di tornare, invece, spesso lo decidono le circostanze esterne: la fine delle Olimpiadi invernali, una prenotazione aerea, la conclusione di un incarico. Per cui, sono qui, sul volo Cathay Pacific CX419, in servizio tra Seoul Incheon e Hong Kong, dove atterrerò circa 80 minuti dopo avere cominciato a scrivere questo diario. In attesa poi del Big One , il viaggio vero attraverso tutta l’Eurasia, per riportare indietro il tempo di 21 giorni, prima che tutto questo succedesse, come se non fosse mai successo.  Tempo fa, ne sono abbastanza convinto, il mio paragrafo si sarebbe fermato qui: l’impossibilità del presente, l’incomprensibilità di ogni momento, una costante e struggente nostalgia di qualcosa che poi non si è mai avuto o non c’è mai stato davvero. Tutte cose di cui ques...

Giorno 12. Nulla

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E’ un po’ così anche la mia, di faccia, in questi ultimi giorni di Giochi olimpici invernali nella ridente PyeongChang. Genova è lontana (anche se l’ immobile campagna un po’ assomiglia a queste colline trasformate in siti alpini con notevole creatività dal CIO e dal comitato organizzatore coreano), eppure anche io mi sento un po’ parente di quella gente che sta qua e come noi è forse un po’ selvatica , anche se sorridono sempre tutti e non mancano mai gli inchini. In questi per ora 18 giorni qualcosa è successo, qualcosa è cambiato. La mia stanza è diventata una camera di compressione, uno spazio intermedio tra un universo inconoscibile e gigantesco (queste Olimpiadi) e il resto, la vita guardata da dietro qualche vetro (della finestra al decimo piano, del finestrino dell’autobus, dell’ennesimo bicchiere di Ferrari rosé, di uno schermo piatto che trasmette ininterrottamente gare, gare, gare), che non è mai raggiungibile, che è una scimmia di luce e di follia , e poi il resto che...

Giorno 11. Carolina K.

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ovvero Ritratto (approssimato) di una pattinatrice da grande Non c’è alcun intento “edificante” in quello che sto per scrivere, solo alcuni dati che hanno una loro oggettività. Seguendo le gare degli italiani del pattinaggio di figura alle Olimpiadi invernali di PyeongChang - nessuna medaglia, nessuna festa ufficiale per loro a Casa Italia - ho assistito a una serie di sconfitte che sconfitte non sono praticamente mai state, ho visto decimi posti belli come un podio, ho sentito l’entusiasmo vero di chi è arrivato sesto, come i magnifici Ondrej Hotarek e Valentina Marchei, ho abbracciato Matteo Guarise, che non avevo ovviamente mai visto prima, al termine della sua esibizione, perché era stata una grande esibizione. E poi c’è sempre lei, con quel suo sorriso triste e la sua voce troppo pacata, Carolina Kostner, una ragazza che ha il doppio degli anni delle sue rivali russe (la medaglia d’oro appena incoronata Alina Zagitova ha 15 anni, la due volte campionessa mondiale, oggi...

Giorno 10. Felicità

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Sono le 00.48, sono seduto in un autobus surriscaldato che viaggia nella notte coreana verso il Media Village. Ho le cuffie e ascolto Amanda Lear dei Baustelle (non lo avevo ancora fatto!!! Questo mi dà l'esatta misura della mia alienazione di questi giorni dall'altra parte del mondo) e sento tutta l'allegria assurda di chi in mezzo a una tempesta non trova di meglio che fischiettare una canzonetta. Mi sento un po' una specie di Baudelaire de noartri e un po' un compagno di cella del Conte di Montecristo, che però ha deciso di accettate il destino dello Chateau d'If. Ma la verità è che non mi sento niente, e credo che sia questo a darmi questa sensazione di leggerezza e di vaga euforia, mentre fuori la realtà cade a pezzi come in videogioco di Harun Farocki. Saranno i Baustelle, o la vertigine della stanchezza senza posa di queste settimane coreane. Saranno i ricordi di altre vite (le vite degli altri ), o il sollievo della catastrofe: dopo tutto il terror...

Giorno 9. Isole

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Mi sveglio e dalle finestre entra un gran luce. I palazzi sono sempre lì, e sempre lì, insieme a loro, c’è quella botta di angoscia che monta con i sogni - confusi, imprecisi, definitivi - e poi spara il suo colpo principale: lo spaesamento assoluto, quella accelerazione della digestione dei noodles al Kimchi o delle troppe birre che tiriamo tardi a bere nella Main dining room , cercando, io e i colleghi d’agenzia, di mettere insieme, anche a livello umano, il puzzle di queste giornate rocambolesche e velocissime, che non finiscono mai eppure sono già scomparse una dietro l’altra, come se in questa lontanissima parte del mondo il tempo andasse insieme più lento e più veloce (mi vengono in mente i pomeriggi alla scuola elementare, con la luce che filtrava a strisce orizzontali e la loro durata eterna…. solo che adesso quell’eternità appare una specie di battito d’ala di farfalla, e speriamo che che non inneschi qualche terremoto), lasciando dietro di esse sia montagne di parole e mo...

Giorno 8. Prospettiva

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La prima sera a Casa Italia, arrivato circa 26 ore dopo essere decollato da Malpensa, senza soluzione di continuità (se non per uno sguardo gettato sulla baia di Hong Kong piena di barche illuminate e di indecifrate sensazioni d’Oriente) e con l’ultimo tratto di strada affrontato a piedi attraverso boschi notturni innevati, quella prima sera il neon di Maurizio Nannucci che sta sopra il grande tavolo del buffet offerto agli ospiti lo avevo sì guardato , ma non lo avevo visto . Mi ero limitato a registrare un’informazione superficiale, quasi sciatta. Nei giorni successivi ci ho girato intorno, l’ho riguardato quel neon - io che amo così tanto i neon, da Dan Flavin a Bruce Nauman - ma ancora non ci parlavo, non riuscivo a trovare la chiave perché potesse davvero dirmi qualcosa. Probabilmente lo associavo troppo al momento culinario, a quel vezzo di rendere chic gli chef, a quel gioco un po’ spocchioso della contaminazione di generi culturali. E invece mi sbagliavo, perché poi ho capi...

Giorno 7. Alieni

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Nei palazzi del Media Village, questa città che sembra essere stata dimenticata sulla Terra da qualche civiltà precedente come appendice estrema di altre gigantesche strutture poi volate via con Loro, oggi è morto qualcuno. Un interprete coreano di 55 anni, specializzato in giapponese, che abitava, come tutti noi, in un appartamento in condivisione. Lo ha scoperto il suo coinquilino. La polizia ha diffuso solo il cognome del morto: Kim. Letteralmente potrebbe essere chiunque, una specie di Mattia Pascal globale che, come le maschere del presunto Kim Il-sung indossate dalla majorette nordcoreane durante le partite di hockey su ghiaccio della squadra delle Coree unite, alla fine ritrae tutti (e probabilmente, per restare su Pirandello, anche nessuno). Kim è morto nella nostra Manhattan immaginaria, e di lui, del suo dolore al petto la sera prima (così scrive l’agenzia Yonhap) non sapremo mai nulla, di questo nostro simile e nostro fratello . Ma si sa, chi scrive è sempre e soltanto u...