Giorno 8. Prospettiva

La prima sera a Casa Italia, arrivato circa 26 ore dopo essere decollato da Malpensa, senza soluzione di continuità (se non per uno sguardo gettato sulla baia di Hong Kong piena di barche illuminate e di indecifrate sensazioni d’Oriente) e con l’ultimo tratto di strada affrontato a piedi attraverso boschi notturni innevati, quella prima sera il neon di Maurizio Nannucci che sta sopra il grande tavolo del buffet offerto agli ospiti lo avevo sì guardato, ma non lo avevo visto. Mi ero limitato a registrare un’informazione superficiale, quasi sciatta. Nei giorni successivi ci ho girato intorno, l’ho riguardato quel neon - io che amo così tanto i neon, da Dan Flavin a Bruce Nauman - ma ancora non ci parlavo, non riuscivo a trovare la chiave perché potesse davvero dirmi qualcosa. Probabilmente lo associavo troppo al momento culinario, a quel vezzo di rendere chic gli chef, a quel gioco un po’ spocchioso della contaminazione di generi culturali. E invece mi sbagliavo, perché poi ho capito che era necessario che il Nannucci fosse proprio lì, e che era altrettanto necessario che non ci fossero didascalie o spiegazioni. Perché l’opera, che recita “SAME WORDS DIFFERENT THOUGHTS”, stesse parole pensieri diversi, ha la funzione, mi sono reso conto, di fare da termometro dell’ambiente, ha la tenacia di essere così relativa anche in un contesto che spesso al relativismo non può, per sua stessa natura, lasciare troppo spazio - siamo nel quartier generale della missione italiana alle Olimpiadi, che, è noto, sono uno degli eventi in cui, oltre allo sport, si muovono rapporti economici, politici, semplicemente rapporti di Potere, con la P maiuscola - e questo segreto atto sovversivo artistico, una volta percepito, ribalta la situazione di 180 gradi, come minimo, diventa un elemento di modificazione (per scomodare Michel Butor) del contesto che crea quella prospettiva (questo è il tema scelto per il progetto di esposizione artistica molto valido che Casa Italia contiene) perfettamente artefatta che tanto si adatta a raccontare la grande storia del nostro mai abbastanza (o forse sì, adesso che lo scrivo mi vengono dubbi, di prospettiva direi) rimpianto Rinascimento italiano. Ma c’è ancora un elemento: è chiaro che il Nannucci non sarà riconosciuto da tutti gli ospiti che pasteggiano a Casa Italia, è chiaro che questo non importa, perché l’opera comunque, con la sua stessa presenza, modifica lo spazio della sala, ed è anche chiaro che chi ha scelto di mettere proprio lì proprio quell’opera lo ha fatto (ne sono convinto) per creare questa distorsione, questo arcano contemporaneo, questo gioco di leggerezza consapevole da parte di qualcuno che, di mestiere, non può concedersi troppa leggerezza. La sovversione, insomma, voluta esattamente da chi non può che rifiutarla (vi ricordate il Gattopardo, tutto cambi, niente cambi). Trovo che sia un cerchio che si chiude perfettamente sopra le teste dei pasciuti notabili che non sanno e pure sopra quelle di noi scafati lettori del presente che pretendiamo di sapere. Ma la prospettiva resta per fortuna ambivalente e senza risposte. Stesse parole, pensieri diversi. 
Eh già.


INTERMEZZO

L’Inferno esiste ma è vuoto (cit. da Nicola Lagioia, Occidente per principianti).

Le api per stare ferme devono muoversi velocissime (cit. approssimativa da una canzone imprecisata di Jovanotti).

Ma lo sai che tu sei uguale a Pirlo? (cit. più frequente tra le cose che mi hanno chiesto in questo viaggio in Corea)

FINE INTERMEZZO


La vita (con molte istruzioni per l’uso) negli appartamenti del Media Village scorre placida con i suo ritmi assurdi. Si esce la mattina abbastanza presto, si torna la sera decisamente tardi, per poi lavorare in camera ancora un numero di ore sufficiente per lasciarti stremato, ma, al tempo stesso, ancora fondamentalmente insoddisfatto e angosciato dall’avere mancato qualche notizia o, io di più questa, di esserti perso qualcosa, in generale. Però, in questa costanza dell’incertezza, una certezza c’è: la misteriosa signora dell’housekeeping che, con una geometria variabile, rifornisce di asciugamani il mio appartamento. (Apro una parentesi: oggi, dopo parecchi giorni, ho di nuovo visto Otto, era seduto sul suo letto e telefonava, ci siamo scambiati un saluto a gesti; mi è sembrato lo stesso di sempre, ma un po’ più stanco). La signora, dicevo. Invisibile, come ha già raccontato David Foster Wallace a proposito di chi ripuliva la sua cabina nella memorabile crociera di Una cosa divertente che non farò mai più, ma anche generosa con le spugne, che io, sempre preoccupato di non averne abbastanza per torturarmi i capelli appena lavati la mattina, accumulo giudiziosamente nell’armadio chiuso. Metti che in un futuro ce ne sia penuria. Non dedicano grande attenzione a pulire, per esempio, il pavimento. Ma gli asciugamani sono tanti, puliti, morbidi, insomma la felicità semplice e garantita. Il resto solo solo sfumature di detersivo e illazioni su uno sgrassatore.

Mi viene in mente, in questa ennesima notte asiatica spesa in pigiama (ma onesto, come pigiama, pure a collo alto) sul letto davanti al MacBook, che in tutti questi giorni, in tutti gli incontri e le divagazioni, in tutti i momenti spesi dietro a qualcosa (una gara, un autobus, due o tre birre) mancava l’amore. La domanda la diceva bene Tommaso Pincio nel suo libro su Kurt Cobain: “E l’amore?”. Lì, come qui, non c’è. Non è previsto. E’ normale che sia così. Le Olimpiadi si pigliano tutto, è scritto nel contratto, cari i miei ingenui di ritorno. E allora resta Bolaño, resta 2666 (non leggo molto in questi giorni, ma questo sì) resta soprattutto la signora Bubis, alias la baronessa Von Zumpe, alias il desiderio e la felicità (impossibile ovvio) dell’amore reale. Le pagine su di lei sono un’aspirina in questi gelidi palazzi (ecco cosa sembra davvero i Media Village: un grande ospedale; tipo come cantava Luca Carboni: e il mondo è un grande ospedale), un’aspirina con un po’ di Coca-Cola magari, o un bicchiere di whisky sul comodino, una promessa che sarà difficile vedere realizzata, ma che è già importante solo che ci sia. 
Same Words Different Thoughts
Perché quello che facciamo qui, a essere davvero onesti, è usare il lavoro, più che come forma di suicidio (e anche in questo caso c’entra DFW, ma non nel modo banale che potreste pensare), al posto del suicidio, con un effetto simile, ma meno drastico e impattate sugli altri. La Corea intera sembra vivere al posto del suicidio. Non scandalizzatevi, è una bella cosa, è comunque un tentativo di non mollare, di non cedere, in fondo di dire qualcosa di diverso. 
Same Words Different Thoughts

Domani succederà qualcosa, domani andrò a vedere il confine con la Corea del Nord. Una diversa prospettiva? Non lo so, credo che quello che vedrò sarà sostanzialmente la narrazione della storia concepita da questa parte del 38esimo parallelo, un racconto strutturato per dire certe cose e non altre, per mostrarmi certe cose e non altre. Ma io sarò lì, e cercherò di metterci, insieme alla miopia, anche una mia personale prospettiva. 

Domani andrò al Nord, e ci sarà una strada da percorrere, ancora una volta. Al posto del suicidio. Al posto di me. 



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