Giorno 10. Felicità

Sono le 00.48, sono seduto in un autobus surriscaldato che viaggia nella notte coreana verso il Media Village. Ho le cuffie e ascolto Amanda Lear dei Baustelle (non lo avevo ancora fatto!!! Questo mi dà l'esatta misura della mia alienazione di questi giorni dall'altra parte del mondo) e sento tutta l'allegria assurda di chi in mezzo a una tempesta non trova di meglio che fischiettare una canzonetta. Mi sento un po' una specie di Baudelaire de noartri e un po' un compagno di cella del Conte di Montecristo, che però ha deciso di accettate il destino dello Chateau d'If. Ma la verità è che non mi sento niente, e credo che sia questo a darmi questa sensazione di leggerezza e di vaga euforia, mentre fuori la realtà cade a pezzi come in videogioco di Harun Farocki. Saranno i Baustelle, o la vertigine della stanchezza senza posa di queste settimane coreane. Saranno i ricordi di altre vite (le vite degli altri), o il sollievo della catastrofe: dopo tutto il terrore vissuto temendola, finalmente è arrivata e in ogni caso è un passo (eh, ve lo aspettate che adesso torni a parlare dell'incubo nucleare, vero? Ma non lo farò, mi limiterò a pensare che qui nella Penisola coreana al tempo di Kim Jong-un è probabile che io abbia raggiunto il punto della mia vita più vicino alla sublime - in quanto incommensurabile - sequenza ordine-lancio-esplosione, che tante volte mi sono figurato tra il 1978 e oggi. Bellissimo).

Vola in cielo un aeroplano
Io ti amo e non ti penso mai

Invece ho mentito, ne parlo.
Penso spesso ai campi del Midwest americano nei quali sono interrati i silos che contengono i missili balistici intercontinentali. Penso spesso al momento irripetibile in cui, uno a uno, si aprono come bocche oscene dalle quali fuoriesce la bellezza assoluta dei razzi della Distruzione Totale, che poi si alzano in cielo disegnando le ultime costellazioni, l'ultimo e definitivo capolavoro del genio umano, così perfetto da non potergli sopravvivere. Penso alla famiglia di farmer che li vede da vicino e che si mette a danzare, tutti abbracciati, per festeggiare il Giorno. Il Gran Giorno. E la loro danza non può essere definita se non come felice.

Gravi stati di allucinazione
Mentre passa l'ultima canzone
All'Eurofestival
E il nostro amore è ai titoli di coda

Ora sono le 2.49, sono seduto sul letto della mia stanza e non ho più la forza di rimettere insieme i pezzi della giornata. Però mi ricordo di Sofia Goggia che è venuta a Casa Italia dopo il pazzesco Oro nella discesa libera e che si è rivelata una persona più interessante di come forse lei stessa tende a dipingersi. Mi è sembrata vera, e sotto la felicità della medaglia (stessa cosa che si vede evidentemente con Arianna Fontana, l’altra superstar di questa spedizione olimpica italiana) si trovano delle belle tracce grosse di una consapevolezza triste e di un fondo di insoluto che neppure le medaglie più splendenti riescono a nascondere. Si chiama vita, penso, ma scrivere certe frasi a quest’ora della notte è sempre una inutile imprudenza, quasi un atto di spacconeria. 
Prima di dormire penserò a David Foster Wallace, oggi qualcuno ha scritto che è il giorno del suo compleanno. Sarebbe stato bello coprire queste Olimpiadi insieme a lui, me lo immagino seduto scomodo e sudato nelle postazioni della sala stampa a battere furiosamente sui tasti e a emettere grandi sospiri senza apparente motivo. Una bottiglia di Coca-Cola sempre sul tavolo e un paio di snack in tasca. La mattina ci salutiamo con un cenno, poi, a mano a mano che i giorni passano, anche qualche pacca sulla spalla. Prima che tutto finisca e ci si perda di vista, senza neppure riuscire a scambiarci quel saluto e quei contatti come tante volte avevamo pensato di fare, ma il tempo correva troppo in fretta. Come sempre. Pazienza David, sarà per un’altra volta.

Che cos’è la vita senza
una dose di qualcosa, una dipendenza.

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