Giorno 12. Nulla

E’ un po’ così anche la mia, di faccia, in questi ultimi giorni di Giochi olimpici invernali nella ridente PyeongChang. Genova è lontana (anche se l’immobile campagna un po’ assomiglia a queste colline trasformate in siti alpini con notevole creatività dal CIO e dal comitato organizzatore coreano), eppure anche io mi sento un po’ parente di quella gente che sta qua e come noi è forse un po’ selvatica, anche se sorridono sempre tutti e non mancano mai gli inchini. In questi per ora 18 giorni qualcosa è successo, qualcosa è cambiato. La mia stanza è diventata una camera di compressione, uno spazio intermedio tra un universo inconoscibile e gigantesco (queste Olimpiadi) e il resto, la vita guardata da dietro qualche vetro (della finestra al decimo piano, del finestrino dell’autobus, dell’ennesimo bicchiere di Ferrari rosé, di uno schermo piatto che trasmette ininterrottamente gare, gare, gare), che non è mai raggiungibile, che è una scimmia di luce e di follia, e poi il resto che ha immaginato Paolo Conte: foschia, pesci, Africa, sonno, nausea. La fantasia non so, forse è rimasta solo quella, ma scivola sempre di più nella fantascienza, quella strana, distorta, Stalker di Tarkovskij, per dire, mai cose rassicuranti alla Arthur C. Clarke. Mi vedo con un asciugamano in vita, in piedi in mezzo a quello spazio vuoto, immobile, perfino incapace di prendere dal letto il phon per asciugarmi i capelli. Nel cassetto i libri che ho portato, ma non ho letto (l’ultimo Bolaño, il Lotto 49 di Thomas Pynchon e, adesso che è troppo tardi, non capisco perché non lo abbia riletto, Oedipa Maas sarebbe stata una buona compagna d’avventura, sarebbe stata perfetta per tanti motivi), insieme alla raccolta di scontrini in coreano per la nota spese e alle scorte di articoli da bagno elegantemente riposti ancora nella busta Ikea taglia media. Tre settimane fa ero paralizzato dall’idea della partenza, ora lo stesso accade con l’idea del ritorno. Chissà perché la cosa non mi stupisce.

La meschina verità è che ogni volta, ogni fottutissima volta, a salvarmi (ma ho molti dubbi su questo verbo, moltissimi) arriva questa tastiera, il suono delle dita che battono sulle lettere, e non ce l’ho una spiegazione per questa cosa, avessi almeno scritto, che so, il meno bello dei Nove racconti di Salinger oppure uno qualsiasi dei reportage di Joan Didion. O una canzone dei REM… Santo cielo, che piega disastrosa che sta prendendo questo post. Non va, così non va proprio.

Dovrei parlare della Corea, delle sue assenze e di come all’improvviso spuntino dei pezzi di Brooklyn anche a Gangneung, delle case basse senza recinzione in mezzo a piccole spianate, dei laghi - adesso quasi tutti ghiacciati - che capita di trovarsi tra i piedi se si tenta di mappare il territorio camminando, dell’unico locale che abbiamo scoperto essere aperto fino a notte fonda (l’unico orario in cui siamo tornati al villaggio dei giornalisti, tutti i giorni di questa missione), della paura che mi fa quel mare scuro della porta che si chiude alle spalle e mi lascia solo con ogni tipo di abbandono, compreso quello davanti al computer per provare a raccontare ancora qualcosa di diverso, mentre mi rendo conto che l’esito è poi sempre la stessa cosa. Questa Corea che è stata più uno stato d’animo, un’impressione di fine inverno che scivolerà via, come le gocce fanno sempre fuori dall’oblò dell’aereo mentre prende quota. Questa, lo avrete capito, è semplicemente la cronaca di un fallimento, del mio fallimento, della mia incapacità di trasformare questi giorni, questi rocamboleschi momenti al centro del mondo, in qualcosa di vero. Qualcosa al posto del nulla, era li bel titolo di un saggio scientifico poi non così bello. Invece il nulla ha vinto, e anche questo, chissà perché, non mi stupisce.

Però. Due sere fa, tornando in bus, mentre fuori scorreva quella liquidità globalizzata dei paesaggi autostradali in movimento, Spotify mi ha proposto prima E-bow the letter (la canzone che avrei voluto scrivere io dei REM, appunto) e poi Il fantasista di Ruggeri, con quel passaggio completamente sconnesso da tutto il resto, in cui lui dice che spera che l’arbitro “non fischi la fine mai più”. Stavolta anziché mettermi a piangere mi sono messo a cantare ad alta voce. Non so cosa abbiano pensato i giganteschi colleghi della Reuters o quelli minuti della Yonhap che affollavano il pullman partito dal Main Press Centre alle 00.15, però io sono stato abbastanza bene e nessuno si è lamentato vistosamente (ovviamente non cantavo a squarciagola, ma neanche pianissimo, una dignitosa via di mezzo, insomma). Qui c’era qualcosa, e quel che vedevo fuori era anche un po’ dentro, era piuttosto autentico… di questi tempi un risultato tutt’altro che disprezzabile.

Ora sono le 4.27 di domenica 25 febbraio. Sono uscito dalla sala stampa circa mezz’ora fa (è aperta 24 ore su 24). Il cielo era chiazzato di nuvole chiaroscure e i miei soliti palazzi avevano addosso una magnifica luce sinistra. Ho tentato di fare una foto, ma il sensore dell’iPhone non riusciva a mettere a fuoco il cielo lattiginoso. Non mi è dispiaciuto, ho messo via il telefono, mi sono alzato il bavero e ho ripreso a camminare verso casa.

p.s. Otto se ne è andato. Ho sentito rumori e visto luci accese fuori dalla mia stanza intorno alle 5.30 del mattino, ho pensato stesse andando in bagno o combattesse l'insonnia in qualche modo. Invece se ne è semplicemente andato, penso per tornare alle sue amate Dolomiti. Credo di essere stato un pessimo co-inquilino, ma quando vedo che le sue scarpe non sono più lì, davanti alla porta della sua stanza, sono travolto da una enorme malinconia. Auf wiedersen, Otto.

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