Giorno 7. Alieni

Nei palazzi del Media Village, questa città che sembra essere stata dimenticata sulla Terra da qualche civiltà precedente come appendice estrema di altre gigantesche strutture poi volate via con Loro, oggi è morto qualcuno. Un interprete coreano di 55 anni, specializzato in giapponese, che abitava, come tutti noi, in un appartamento in condivisione. Lo ha scoperto il suo coinquilino. La polizia ha diffuso solo il cognome del morto: Kim. Letteralmente potrebbe essere chiunque, una specie di Mattia Pascal globale che, come le maschere del presunto Kim Il-sung indossate dalla majorette nordcoreane durante le partite di hockey su ghiaccio della squadra delle Coree unite, alla fine ritrae tutti (e probabilmente, per restare su Pirandello, anche nessuno). Kim è morto nella nostra Manhattan immaginaria, e di lui, del suo dolore al petto la sera prima (così scrive l’agenzia Yonhap) non sapremo mai nulla, di questo nostro simile e nostro fratello. Ma si sa, chi scrive è sempre e soltanto un lettore ipocrita delle situazioni altrui. 

Ieri sera sono tornato alla Ice Arena per le finali si pattinaggio short track. Un ingorgo gigantesco ha bloccato il mio autobus per circa un’ora appena fuori dal Main Press Centre di PyeongChang. Mi sono addormentato, come d’abitudine, poco dopo la partenza, cullato dal tepore odoroso del bus e con la testa appoggiata al vetro più fresco. Ho sognato qualcosa di astratto in cui c’entrava mio padre, forse anche la scuola, qualcosa di ansioso, ma non troppo. Quando mi sono svegliato, sostanzialmente non ci eravamo mossi. Così ho perso diverse gare che avrei dovuto seguire, ma per la finale dei 1500 metri femminili, in cui gareggiava l’italiana Arianna Fontana, fresca campionessa olimpica dei 500 metri, ero pronto nella tribuna stampa (però in piedi sui gradini, senza tavolo né poltrona, e mi è parsa un’altra perfetta fotografia di questa grande missione giornalistica internazionale alla quale sono stato ammesso - probabilmente in modo inopinato, ma indiscutibile, come la mia Olympic Identity and Accreditation Card sta ogni giorno a dimostrare a tutti i check point elettronici nelle varie sedi dei Giochi - ma della quale, come di molte altre cose della vita, forse tutte, non sono mai completamente parte né partecipe: ho la sensazione che questo possa essere il mio vero problema di fondo).

Questo diario non è fatto per la cronache delle gare, però, mentre Arianna rallentava rinunciando del tutto allo sprint dell’ultimo giro (“Le gambe hanno detto basta”, dirà a noi cronisti italiani nella zona mista poco dopo, senza abbandonare il suo tipico sorriso gentile e un po’ triste), il pubblico dava vita a un crescendo di urla per accompagnare la terribile coreana Choi - una specie di squalo predatore della pista, capace di emanare crudeltà sportiva a profusione - nella sua trionfale scalata verso la medaglia d’oro. Mi spiego: è normale che in ogni momento sportivo topico il pubblico produca dei boati, che abitualmente hanno un inizio, un climax e poi digradano verso la fine per tornare a seguire l’evento. Qui è successa invece una cosa diversa. Nel momento in cui Choi (che aveva perso proprio con l’Italiana al fotofinish il titolo olimpico dei 500 m e poi era pure stata squalificata) tagliava il traguardo l’urlo era arrivato, diciamo a una fase tre di intensità: chiaro, potente, emozionante. Poi però, dopo la fine della corsa, è cresciuto ancora (diciamo intensità 4) mentre la pattinatrice festeggiava, e anche questo, seppure un po’ insolito, ci stava. La cosa veramente strana è che ancora dopo, quando già i giornalisti lasciavano le postazioni per scendere a intervistare le atlete, che stavano a loro volta uscendo dalla pista, l’urlo collettivo (non le grida del piccolo gruppo che vede passare vicino il proprio idolo, proprio l’urlo di tutta la Ice Arena) è ulteriormente aumentato, intensità 5, forse addirittura 6, diventando totale, assoluto, e io, guardando il mio amico Andrea, anche lui piuttosto colpito, ho pensato che non sarebbe mai finito. Ho guardato questi coreani, all’apparenza miti e sorridenti, capaci però di produrre questa apocalisse del tifo, questa surreale disopia sonora. Li ho guardati e, una volta di più, mi sono accorto - una volta di più - di non sapere nulla e che le cose sono fatte apposta perché io non le capisca. In fondo, lo ammetto, questa sensazione mi piace. Ma i coreani, urlatori venuti dallo spazio profondo - mi hanno fatto un po’ paura.

Tornando verso il Media Village, a un’ora imprecisata della notte, seduto accanto a un signore orientale che dorme molto composto, guardo fuori dai vetri opachi dell’autobus TM21, cercando di scorgere qualcosa nel vuoto delle campagne che attraverso ogni giorno. Cerco delle storie che riempiano il mio di vuoto, che cresce di volta in volta, seppure in modo sfumato e ora, era inevitabile, sta cominciando a prendere la forma dell’ansia da ritorno, con le incognite che questo porta con sé, esattamente come, prima, le portava il pensiero della partenza (da questa cosa non si esce, ma lo so da tempo, l’ho anche abbastanza digerita). Le storie distraggono o, meglio, dilatano l’intervallo tra le ansie e lo riempiono di qualcosa che, nella fattispecie del momento, trovo bellissimo. Le strane luci a led colorate che decorano l’interno del bus si riflettono infatti nei vetri appannati e, dalla mia angolazione diventano astronavi colorate, come quelle di Incontri ravvicinati del Terzo tipo, (vi ricordate?) con dentro gli alieni altissimi e buoni (che però sembrava volessero portarsi via i bambini), che volano basse, magnifiche, sopra i palazzi in costruzione della periferia spirituale di Gangneum. “Sono arrivati”, faccio finta di pensare, “sono venuti qui per dire qualcosa, per dirmi qualcosa, per allargare l’orizzonte di senso delle cose, forse per riprendersi tutti i palazzi che avevano lasciato qui un miliardo di anni fa”. Ripenso a un racconto di fantascienza che avevo iniziato a scrivere anni fa, il protagonista si chiamava Westerman, (in onore dello scrittore e giornalista olandese Frank Westerman, uno dei miei idoli segreti), e a lui veniva affidata una missione di mediazione con delle entità aliene superiori chiamate gli Oscuri. Il racconto, di cui ora non ricordo tutti i dettagli, alla fine non andava da nessuna parte, ma lo faceva comunque con quello che a me pareva un minimo di grazia. Mi sembra un ragionevole obiettivo anche per questa notte, ma quando poi finisco a mangiare kimchi noodles nell’unico locale di tutta la città aperto fino a tardi, appena percepisco l’odore di cucina che si attacca non solo ai miei vestiti, ma anche alle mie cellule, prendo piena consapevolezza che anche quel minimo di grazia è andato a farsi benedire. Per cui, a cuor leggero, quando due ore dopo esco per andare davvero a dormire, mi fermo con naturalezza nel supermercatino H24 a comprare un fantastico cream bread, un panino rotondo confezionato e ripieno di panna. A quel punto però gli alieni delle astronavi colorate erano ripartiti da tempo.

p.s. Ancora non ho rivisto Otto, però trovo tracce tangibili del su passaggio: l’umidità in bagno la mattina e il profumo del suo bagnoschiuma. Un asciugamano sul divano. Due mattine fa pure un pezzo di filo interdentale sul lavandino. Mi chiedo come funzioni la vita coreana del mio invisibile coinquilino germanofono, però in qualche modo lui c’è, e va bene così.

p.p.s. Forse Otto è, in qualche modo, un'immagine di Samuel Beckett, un'immagine poliglotta e sfuggente. Viva, ma invisibile. Oh My God(ot)...

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