Nightswimming

A un certo punto chiedo a Vittorio di spegnere le luci. La piscina piomba nel buio e l’acqua, fino a poco prima così rassicurante, si trasforma in una lamina nera, vagamente ostile. Bellissima. Mi rituffo, scendo a toccare il fondo, prendo le misure allo spazio che ora riesco a vedere pochissimo e che devo scoprire a mano a mano. Mi sembra di muovermi nella foresta, aprendomi dei varchi ogni volta diversi e non prevedibili prima, la stessa foresta che, quando riemergo, vedo tutto intorno al resort, ancora sostanzialmente carica del suo mistero originale. Ormai è ora di ritornare, di lasciare il Vietnam e la vorticosa incongruenza di questa settimana inconsueta, e la cosa che mi porterò via - come ricordo, rimpianto, manifestazione o talismano, chissà, forse tutte queste cose insieme - saranno soprattutto le nuotate notturne che ho fatto, da solo, in ogni albergo. Degli spazi di totale abbandono alle circostanze, quasi un momento di autoterapia attraverso i colori e i rumori delle piscine. Quelle stesse piscine che, da ragazzino degli anni Ottanta, ho sempre visto come un  simbolo irraggiungibile di benessere (nella scuola media per ricchi che frequentavo da non ricco c’erano diversi compagni che avevano la piscina in casa, era per me motivo di profondissimo senso di inferiorità sociale) e che oggi associo sempre a David Foster Wallace e, qualche volta, pure a immagini iperrealiste del presente (una fotografia alla Struth o alla Jodice, Francesco, molto di più che, per esempio David Hockney) o a film come Minority Report (la scena della scomparsa del figlio del protagonista Anderson) o ancora libri come Meno di Zero, testimonianza di quando Bret Easton Ellis era ancora un grande scrittore. Nuotarci, quasi ogni notte, sotto i cieli torbidi dell’Estremo Oriente, è stato anche un modo per gestire - oltre alle ansie quotidiane ricorrenti - anche questo rapporto con il luogo-piscina, iconico e indefinibile come l’immagine di una grande vasca nella casa del sindaco di un piccolo paese del Canton Ticino intravista con enorme stupore in una notte d’estate del 1983.

(Ehi, ottantatre, sei lì come uno specchio, ci fai sentire diversi, nessuno sa perché.
È un verso di Lucio Dalla in una sua canzone minore, alla quale sono molto affezionato).

Nuotare di notte, come la canzone Nightswimming dei R.E.M. è un’esperienza acustica, morbida, lontana dalle possibilità diurne. È un’azione che, oggi, si carica di senso solo se io quel senso ce lo vado a mettere, sotto forma di sfida, oppure di rituale. Mi sono bagnato nelle piscine dell’Asia, una abluzione laica fatta in silenzio e al cospetto del cielo, mentre intorno tutto il mondo correva a un ritmo vorticoso nel traffico dei motorini e dei bus. Non ho imparato nulla nuotando, ma l’ho fatto lo stesso e, in questo modo, forse ho insegnato qualcosa io, nulla di pratico o utile, per carità, ma qualcosa di necessario per rendere più completa la mia stessa (auto) percezione. Prima che venga l’ora di ripartire alla volta di casa.

Nelle ultime due notti ho avuto strani incubi, mi sono svegliato più volte in preda a una angoscia difficile da definire, eppure simile a quella che sperimentavo tanti anni fa. Non ho intenzione di cedere, ma mi rendo conto che ho bisogno di rimettere insieme dei pezzi, in modo più solido. Non ho idea di come fare, ma la metodologia di fondo potrebbe assomigliare a quella delle nuotate notturne: superare una paura, tuffarsi, dare il meglio e godersela un po’. 

Ciao Vietnam.

P.s. Una volta, ancora nel XX secolo, in un mio racconto decisamente stucchevole, un personaggio chiedeva a un altro quale fosse stato il giorno più bello della sua vita. "Non me lo ricordo", rispondeva dopo un po' il secondo. "Nemmeno io", diceva il primo a quel punto. Ecco, forse è sempre andata così, semplicemente così.

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