Giorno 5. Essere

Sono le 2.29 del mattino, qui a Gangneung. Sono seduto sul letto nel mio mini appartamento con le tende sempre aperte per vedere i palazzi fuori. Oggi il popolo del Media Village deve essere stanco, perché quasi tutte le luci sono spente intorno alla mia. E’ da una mezz’ora circa che cerco di scrivere questo Diario. Ne è uscita una spataffiata su Parmenide e le seghe mentali, le sculture veneziane di Damien Hirst e l’inutilità dei concetti di migliore e peggiore. Tremendo, pesante. Ho buttato via tutto e ricominciato da capo, scrivendo “Sono le 2.29…” (qui potremmo giocare all’infinito sul tema della filastrocca alo specchio, sarebbe a modo suo divertente). Ma no. Quello che mi interessa è mettere insieme gli appunti di questa ennesima giornata olimpica vissuta in quello strano incrocio tra periferia e centro che è Casa Italia, un posto dove si sta lontani da tutto il cuore dei Giochi, ma poi questo cuore viene di sua spontanea volontà (più o meno, salviamo la metafora almeno) da te. Come nel Medico di campagna di Kafka, o nella Steppa di Checov, posti dove le cose succedono proprio perché non è in nessun modo normale che accada così. Quindi alla fine ce la caviamo. Anche se (primo appunto) oggi ho scoperto con un certo sgomento che gli specchi dei bagni, il luogo dove più onestamente possibile ci si guarda in faccia senza troppo trucco, questi specchi che dovrebbero essere luoghi rassicuranti di auto-riconoscimento, sono in realtà degli schermi elettronici, sono dei monitor… Capisco la domotica, l’avanguardia tecnologica, capisco tutto. Ma quando per la prima volta me ne rendo conto, lavandomi le mani prima di andare in bagno (anche il wc ha un’appendice elettronica ignota, ma questa è chiaramente visibile e dichiarata, basta ignorarla per non vedere compromessa l’esperienza abituale) le immagini che mi arrivano addosso all’istante sono legate alle storie di Philip Dick (mondi paralleli, realtà fittizie, matrici, Cose-Padre…) o, peggio, alla psicopolizia di Orwell che proprio attraverso uno schermo parlante scopre il segreto dell’amore reale e sovversivo di Winston e Julia. Paura assoluta. Da scapparsene in sala stampa senza nemmeno fare pipì.

Dagli autobus che prendo ogni giorno più volte (secondo appunto) provo, quando non crollo addormentato (che è il più delle volte), a guardare fuori, cercando di dare un senso ai 10mila e passa chilometri fatti per andare “dall’altra parte del mondo” come si diceva una volta e forse non si dice più. Ma vedo solo autostrade, automobili, svincoli di dimensioni modeste (niente a che vedere con certe immagini pazzesche di Tokyo o Shanghai), parcheggi. La rotta olimpica, mi rendo conto, non prevede le città, ma non prevede nemmeno le persone, è questa la cosa più strana, non si incontrano persone. Non perché, come accade cento chilometri più a Nord, oltre il confine, la dittatura le nasconde (o le fa stare nascoste), ma proprio perché, mi convinco, non sono previste, non servono allo scopo… Per questo (secondo appunto e mezzo) l’unica volta che vado a vedere un altro parco olimpico, quello dedicato agli sport del ghiaccio, e scopro che su una rotta stradale diversa si sfiora un centro abitato e addirittura si vedono delle case basse con grosse insegne colorate sopra e, tenetevi forte, dei veri pali di legno sui quali, come in ogni viaggio esotico che si rispetti, sono attorcigliati in maniera del tutto impossibile decine di cavi elettrici (che basterebbe - così mi piace pensare, ma ho imparato che sbaglio - una folata di vento a togliere l’elettricità ad almeno un quartiere), quando vedo tutte queste cose, ecco, respiro, riconosco, intavolo trattative diplomatiche con la delegazione della Realtà. Persone ancora pochine, a esser sinceri, ma, sono fiducioso, arriveranno.

Alle 20.58 (ora coreana) ricevo un messaggio Whatsapp da una amica che mi chiede, riferendosi all’esperienza alle Olimpiadi: “Ti sta piacendo?”. La risposta (terzo appunto) che do e che mi riempie al momento di soddisfazione è: “E’ totalizzante. Si prende tutto. Non può piacerti o non piacerti, semplicemente ‘è’, in senso filosofico” (inviato alle 21.00). Non so se sono riuscito a farmi capire dalla mia amica, ma la risposta mi piace molto, mi sembra rendere esattamente i termini della questione, nel senso che poi ricorderò le cose successe con più o meno piacere, ma questo elemento discreto verrà solo dopo - molto dopo - la presa di coscienza del Meccanismo complessivo che, forte di essermi scolato un Vivin C, una coca e tre Ferrari rosè, mi sento libero di definire “ontologico”. Eccola qui, fatta proprio fuori dal vaso, che felicità. Non sono ancora riuscito a trovare una definizione migliore del mio stare dentro questa Olimpiade, dentro questa esperienza complessiva. Lei. Esiste. Mi addormenterò tra non molto pensando ancora che questa è proprio tanta roba

p.s. delle 3.07. Ho anche scattato una foto che mi sembra rendere bene il mio rapporto di questi giorni con il luogo. E’ l’immagine che trovate all’inizio di questo post. 


p.s. delle 3.32. Questa sera, forse inopinatamente, ho raccontato ai miei amici delle cose su Salinger, ma mi rendo conto adesso di avere dimenticato l’aneddoto chiave, quello in cui lui a tre anni fugge di casa vestito da indiano con una valigetta piena di soldatini e aspetta la madre nell’atrio dell’elegante palazzo di New York solo per dirle addio. Ci sarebbe stato benissimo, mannaggia.

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