Giorno 3. Sosia

Mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte, senza un motivo particolare, solo diverse forme di ansia, probabilmente sommate. Mi metto a sedere prima di ricordarmi esattamente dove sono e il tentativo di riconoscere la stanza intorno a me procede per esperimenti successivi, quasi una serie di diapositive illuminate in sequenza rapidissima da un proiettore impazzito. Il cielo verde, i palazzoni dietro la finestra, la consistenza del piumone… potrebbe essere Brooklyn o la solita disperata provincia della mia adolescenza, invece è sempre la Corea del Sud, il Media Village di Gangneung e io, per quanto sia piuttosto ridicolo scriverlo, sono un giornalista internazionale inviato alle Olimpiadi invernali. E, ovviamente, sono terrorizzato.

Cerco di ridare ordine al battito cardiaco, bevo un sorso della Coca Cola che ho comprato la sera prima in un supermercato h 24 gestito da due ragazzi giovanissimi dall’aria perennemente spaventata e poi, quando l’iPhone vibra sul comodino senza illuminarsi resto immobile per qualche minuto, evitando accuratamente di pensare al tempo, passato e futuro (il presente, è notorio, non esiste, mai), ai fusi orari, alla contemporaneità delle cose, a quello che, prima o poi, succederà, e magari sarà pure una specie di sollievo. Mi ricordo di Agassi e della scena, memorabile, con cui si apre la sua magnifica e artefatta “autobiografia”: lui steso sul pavimento e spaccato dai dolori alla schiena, con lo stesso spaesamento da risveglio di tutti. Sono affezionato a quella scena, ha una sua grazia furba che mi dice molto anche di me. La Coca Cola è buona, soprattutto a stomaco vuoto, soprattutto quando ti senti solo e sei, fisicamente, dall’altra parte del mondo a fare qualcosa che, ne sei consapevole, probabilmente non sai fare. La bevo ancora, che mi fa bene.

Qualche ora dopo a svegliarmi sono le imprecazioni di Otto, il mio gentile coinquilino, stavolta furibondo per un motivo che scoprirò solo più tardi: la tenda della doccia si è staccata con tutto il bastone e la cosa lo ha fatto parecchio innervosire. Mi racconta l’accaduto mentre siamo insieme nel “salotto”, la zona in comune del nostro appartamento, e lui indossa solo degli slip, che lo fanno sembrare l’imitazione di qualcuno o di qualcosa, forse dell’età matura tout court… Ho un attimo di incertezza, la stessa, mi rendo conto adesso che lo scrivo, che mi ha colto la sera prima, alla cerimonia inaugurale allo Stadio Olimpico (come si può, mi chiedevo, vedere da solo una cerimonia inaugurale… non ha nessun senso…) quando a pochi passi dal mio posto sono comparsi i sosia di Kim Jong Un e di Donald Trump. Il finto presidente americano mi ha disorientato, credo di avere anche dato di gomito al mio sconosciuto vicino orientale per dirgli una cosa tipo: porca puttana, ma è proprio lui! A Otto invece non dico niente, lo lascio sfogare contro la tenda, non guardo le sue dita che spuntano dalle ciabatte. Poi, verso sera, rientro per qualche minuto nell’appartamento e, stupendomi da solo, sistemo senza troppa fatica il bastone caduto. Mi piace pensare che a Otto dirò che sono state le signore delle pulizie, ma forse non resisterò a prendermi il merito.

La giornata poi prosegue in modi imprevedibili: intervisto un alto dirigente sportivo nordcoreano, che mi parla di “armonia e pace”, con convinzione, ma poi mi dice anche che lui vive a Vienna, che non è esattamente Pyongyang. La cosa che mi colpisce di più, però, sono gli uomini della sicurezza che lo accompagnano: indossano lunghi piumini verdi e quando una interprete locale rivolge al dirigente una domanda in coreano il più vecchio dei due si avvicina e prende nota del nome della ragazza scrivendo a penna su un taccuino, che neanche a Berlino negli anni Settanta. Poi, questa non so come scriverla, succede qualcosa di veramente strano. Mario Pescante, lo storico (e chiacchierato) dirigente sportivo che da secoli si occupa di faccende olimpiche, improvvisamente, quando si avvicina a salutare il nostro gruppo-giornalisti, mi si svela per quello che è davvero: un sosia incredibile dell’ultimo Philip Roth, talmente vivido che decido di intervistarlo solo per poi poter dare la mano allo scrittore che si nascondeva sotto la pelle del mio interlocutore (che subito, rispondendo, cita Pindaro e io capisco che Philip era proprio lì, come quella notte assurda in un resort egiziano quando, in mezzo a 800 agenti di viaggio del tutto fuori controllo, io e la mia amica Valentina incontrammo, solo e appoggiato a una palma, Salinger in persona, un attimo prima che, fedele alle sue scelte di vita, scomparisse di nuovo).

Succedono altre cose, in questo giorno: registro un pezzo stando praticamente nella foresta, vedo e fotografo la ormai leggendaria “sorella di Kim Jong Un” allo stadio dell’hockey, passo ore in un locale coreano a scrivere i pezzi con dei colleghi e poi questo diario, mentre tutto intorno puzza di fritto come non mai. 
Ma qui c’è il presente, e lo sappiamo tutti che non esiste. Quindi mi fermo, giusto sull’orlo del baratro.

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